dicono di lui
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Novella Cantarutti
Novella Cantarutti appartiene alla generazione che alla fine della Seconda guerra mondiale (1945) si dedicò all’uso della propria lingua, in poesia e prosa, e allo studio della vita tradizionale friulana, nella varietà e nella complessità dei suoi campi, dall’oralità al costume, alle consuetudini. Usa sempre la varietà del friulano occidentale che si parla a Navarons in Val Meduna e di quella zona (comprendente le convalli) illustra gli aspetti, senza trascurare contributi parziali riguardanti altre parti del Friuli, soprattutto la Carnia e, in particolare, Illegio (Tolmezzo). I primi testi poetici della Cantarutti escono raccolti, Puisiis, nel 1952, e sono frutto dell’esperienza di un’autrice che condivide le esigenze innovatrici espresse sia da Pier Paolo Pasolini nell’Academiuta di lenga furlana sia da Giuseppe Marchetti, che la accostò al gruppo dei poeti di Risultive da cui si tolse presto per il fermo proposito di mantenere la propria indipendenza anche nell’uso della sua particolare parlata. Raccoglie nel 1980 i versi pubblicati in precedenza e gli inediti, nel volume In polvara e rosa (In polvere e in fiore) mentre le prose appaiono in Sfueis di che! a‘tri jeir (Fogli di un altro ieri) del 1999. Nel 1994 e nel 1997 erano usciti i preziosi libretti bal da li’ fati’ (Ballo di fate) e La lienda dal pitour ch’al veva i voi distudaz (La leggenda del pittore dagli occhi spenti), nella collana “Il gallo forcello” del Circolo Culturale Menocchio. Del 1994 è anche la raccolta di elzeveri Bel che la dì ‘a discrosa li’ ali’, con presentazione di Rienzo Pellegrini. Nel 2004 ha pubblicato la silloge di poesie Clusa, nella collana “La barca di Babele” del Circolo Culturale di Meduno. Poesie della Cantarutti sono state tradotte in francese, tedesco, inglese, rumeno, romancio e catalano. Un volume di prose italiane, Segni sul vivo, è del 1992 (ristampato nel 2004). Gli studi riguardanti la vita tradizionale escono in numerosi contributi rilevabili nelle riviste della Società Filologica Friulana, specie nel «Ce fastu?» e nelle monografie annuali che illustrano vari centri del Friuli; ha curato: con Giuseppe Bergamini il volume Spilimberc (Spilimbergo) (1984); la monografia Commun di Frisanco edita da quel Comune (1995). Nel 1988 è uscito La Collezione Perusini. Ori, gioielli, amuleti tradizionali, in collaborazione con Gian Paolo Gri. Del 2001 è la ristampa arricchita di Oh, ce gran biela vintura! Testi di tradizione orale tra il Meduna e le convalli, frutto di ricerche iniziate nel 1946. Ha ripreso e ampliato di recente le leggende dei castelli nel volume Raccontare di castelli in Friuli (“I quaderni del Menocchio”, 2002). Il lavoro di ricerca nell’ambito dell’oralità in particolare ha impegnato la Cantarutti per più di mezzo secolo. A questa attività di studio ha affiancato l’impegno di insegnante all’Istituto “A. Malignani” di Udine e, all’inizio della carriera, nella scuola media di Spilimbergo. La quiescenza le ha permesso di riunire nei volumi citati e in altri minori il materiale raccolto per documentare il mondo tradizionale e dell’oralità in Friuli. Novella Cantarutti (wikipedia)
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Raffaele Cutillo anno 1991
E’ una pittura scarna, decantata, libera da scorie, pensata e giustificata in tutti I suoi risvolti, in cui ogni elemento ha la sua parte attiva ed integrante del tutto.
Le sue opere inducono al silenzio, spingono all’introspezione ed al riconoscimento del proprio “IO”, ad una castità del sentire smarrita e qui ritrovata.
Scevre da scaltri adescamenti o da zuccherosi ammiccamenti, deserte da figure umane, trasportano in una dimensione onirica, filtrata dalla ragione, senza nulla concedere all’abbandono romantico-crepuscolare o ad un edonismo estetizzante. Le forme si sganciano da ogni sorta di leggi o di riferimento naturalistico e vivono come espressione semplice, come elementi essenziali su una base cromatica priva di accidentalità inopportune. Un continente immaginarlo, simbiosi di emozione e memoria. Raffaele Cutillo
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Giulio Ragazzoni anno 1993
Questa atmosfera avvolta da silenzi profondi ed allusivi, protesa verso dimensioni che sembrano non avere limiti, quasi l’animo fosse alla ricerca di quel famoso fiore azzurro, simbolo dell’infinito andare dell’uomo, rappresenta l’elemento che awolge l’opera di Vallan per li quale la pittura diviene la sua stessa vita quando le emozioni filtrate dalla memoria si concretizzano e si rapprendono nelle delicate tonalità di un colore. Giulio Ragazzoni
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Stefano Aloisi e Vania Gransinigh anno 1996
Le meditazioni compiute sull’opera di Afro e Zigaina hanno indirizzato l’artista maniaghese verso una produzione che, pur attingendo alla dimensione informale, non rinuncia a precisi riferimenti alla realtà dell’immagine. Se nelle prime opere domina sulle aperture spaziali un orizzonte che, nel suo costante proporsi chiude la vista e apre l’immaginazione, nell’attuale produzione si assiste a un potenziamento delle qualità espressive del colore deflagrante sulla tela in ampie partiture. Stefano Aloisi e Vania Gransinigh
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Enzo Santese anno 1998
…Scompone la realtà, riproponendone alcune tracce su uno schermo pittorico dove l’astrazione mai si compie nella sua interezza, ma le tensioni figurali restano sulla soglia di una leggibilità appena percettibile per indizi formali o suggerimenti cromatici. Nell’alveo della memoria l’artista ritrova e fissa episodi, scorci che confluiscono poi in un accadimento creativo prodotto dalla sintesi tra segno e colore. E filamenti, velature e sovrapposizioni si prospettano in filigrana e coesistono in un concerto corposo che diviene linguaggio poetico di fondo, dove il rosso si prospetta nel suo valore significante anche quando non appare in evidenza. Enzo Santese
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Enzo Santese anno 2006
Il mondo di Bruno Vallan è quello di una fisicità trasfigurata a tal punto, da perdere i connotati di riconoscibilità e da essere ridotta a pura fragranza del reale. Infatti nella pittura dell’artista di Maniago resta l’eco di tramonti e albe godute nel silenzio di un’anima, che capta pulsazioni dall’esistente e le traduce in annotazioni di colore puro. La natura, insomma, abita stabilmente nella sua immagi-nazione, la vivifica con parvenze desunte dal repertorio fisico e incanalate in una storia di emozioni che si susseguono da quadro a quadro, dando l’impressione che l’autonomia significante di ognuno possa essere dilatata in una sequenza narrativa da un’opera all’altra con una facoltà combinatoria molto estesa, secondo la fantasia e sensibilità di chi guarda. Il dipinto consente di entrare nella dimensione di un paesaggio sognato o solamente alluso, dentro un vortice apparente di segni, tratti nitidi di una tessitura spaziale che avvolge la porzione di realtà in un involucro di affetti, affidati al calore dell’impianto cromatico. La superficie fa trasparire una texture che nasce dall’unione di segno e colore e il colore si identifica con la luce, così come questa è sostanza visibile dello spazio. Il quadro si presta a una lettura che riconduce con naturalezza al mondo fisico, entro cui è dato riconoscere o, meglio, interpretare le linee anatomiche o i volumi come orizzonti, scoscendimenti montani, rive digradanti del fiume (il Colvera è sempre presente nel pensiero e nell’ispirazione di Vallan), crepuscoli osservati dal folto intrico del sottobosco, aurore attese in mezzo al palpitare del verde intenso, declivi collinari accarezzati dal sole nascente o declinante. La pittura mostra una sorta di respiro interno che sembra prelevato da una memoria biologica, scavato in un ambito primordiale e portato alla luce per ri-organizzarsi in traccia del visibile.
Ogni opera cova il preludio di un evento, rivelatore di una tensione verso un ulteriore approdo metamorfico in una tessitura di segni, che fanno fermentare la pellicola del quadro come sottopelle ed escono guizzando in molteplici trame e tratteggi. L’oscillazione tra ritmi strutturali e cadenze gestuali riflette sostanzialmente un’esigenza di movimento che Vallan trasfonde sul piano dipinto, dando vita a una sorta di grafia organica del complesso di sensazioni, provate a contatto con l’universo circostante; questo si legge non nelle sue evidenze finite, ma come flusso ottenuto con una miriade di tocchi percorsi da una vibrazione interna, condensata in una forma aperta. Le composizioni solo incidentalmente possono far pensare a paesaggi veri e propri; la verità è che colori e segni hanno una funzione percettiva precisa e ci riportano sempre all’intensità dell’emozione che è alla loro origine. La volontà di moltiplicare gli effetti e le risonanze della pittura sospinge l’artista a scomporre alcune opere in porzioni da assemblare poi in triangoli isosceli; il tutto avviene senza che il dipinto mostri fratture formali, dal momento che le aree di colore omogenee e i segni si ricompattano perfettamente in una nuova diversa unità.
La rassegna presenta anche un’installazione di quattro tele, percorse da una sezione centrale rossa e nera, fatta sospendere dal soffitto (in un’alternanza di verde e grigio e viceversa), a testimoniare di una energia che esce dal piano e si installa nella tridimensione.
Nel processo costruttivo dell’immagine Bruno Vallan rimane aderente alla linea progettuale dell’opera, pur riservandosi la felicità dell’imprevisto e dell’accidentale, che si esprime con una pratica pittorica innestata nella possibilità di trasformarla nel luogo di una sempre nuova epifania del profondo.
Enzo Santese
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Chiara Moro anno 2017
Le opere di Bruno Vallan sono creazione e immaginazione, pregne di ricordi, di suggestioni per i propri luoghi, per la natura del proprio territorio fatto di greti di fiumi e di un naturale levigare la pietra, metafora di un tempo che cura e lenisce, crea e sopisce.
La forza dinamica del segno, netto e materico, attinge alle emozioni, sfocia dal rimestare dei pensieri; attrae in un labirinto di cui è risultato e osservazione. Labirinto che è quello della mente e della coscienza, la cui uscita diventa necessaria per definire la propria identità, se accompagnata dal sentimento. La tela, materica e increspata, viene esaltata dalla freschezza dei colori e da un infallibile controllo dei toni, rivelando una modernità di concezione che stupisce e affascina. Estraneo alle vacuità e alle problematicità contemporanee, la pittura di Vallan diventa un tutt’uno con il quotidiano, da cui nasce ed emerge. Le sue opere colpiscono chi le osserva, le si ama e ne si vedono le vene più profonde, ma, proprio per il loro essere arte che nasce dall’impulso e muore nell’affievolirsi delle emozioni, diventano, quando non le si osserva, parte della nostra memoria, come un vento freddo che ci scuote dentro e di cui scompare la sensazione al primo raggio di sole. Figlie del pregiudizio dell’estetica contemporanea, le opere di Vallan appartengono a quella rara categoria di oggetti fascinatori che necessitano di osservazione, studio e concentrazione, per rimanere suggestione nella suggestione, emozione nelle emozioni. Chiara Moro
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Marta Mauro anno 2017
Bruno Vallan fece la sua scelta a quattordici anni, iscrivendosi ai corsi della Scuola Mosaicisti di Spilimbergo. Una scelta libera, sostenuta dalla forza che hanno gli ideali nella giovinezza: dare forma al suo cercare attraverso forme e colori. Il primo incontro con la realtà non fu secondo le attese, soprattutto per l’insistenza sulle tecniche che dovevano, in quegli anni, preparare gli allievi al mestiere di bravi terrazzieri. Emigrò in Francia. Se il lavoro non gli permetteva di esprimersi, c’erano però i grandi artisti che, nei musei, mantenevano viva la fiamma. Rientrato in Italia riprese a studiare, si diplomò e divenne un tecnico dell’industria, ma le competenze e gli impegni lavorativi non lo distolsero mai dall’esigenza di esprimersi per immagini. Riprese a dipingere e comporre tessere seguendo non solo le suggestioni della memoria, ma il fluire delle emozioni; per questo le sue opere fissano nel colore e nella materia un silenzio che trasale in luce e si anima di segni parchi e veloci. Un’arte che vive. Marta Mauro [Marta Mauro è nata sull’Appennino toscano, ha soggiornato nel medioevo padano di Matilde di Canossa, è diventata adulta attraversando ogni giorno la chiesa di Sant’Ambrogio a Milano. Non poteva che diventare una storica dell’arte. Nell’ambito di queste competenze si è occupata di divulgazione, ha scritto di artisti contemporanei, è stata conservatrice di un piccolo museo etnografico e redattrice dei Quaderni dello stesso museo. Per i tipi del Menocchio ha pubblicato i racconti Come se dovessero acchiappare farfalle in volo e il romanzo Un altro maggio altrove. Per Forum Editrice Universitaria ha pubblicato il romanzo Anna dei miracoli. fonte: www.graphe.it]
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Paolo Venti anno 2017
Resto convinto che per comprendere la pittura di Bruno Vallan convenga partire dall’inizio, ovvero da quella sua fondante esperienza di mosaicista che lo ha visto alla scuola di mosaico in anni ormai lontani sul piano biografico, ma ben presenti su quello dell’arte e dell’emozione. Il mosaico è tecnica esigente che pretende spazi, tempi lunghi, luoghi particolari e committenti, e molti come Bruno, seguendo nella vita le vie di altre attività lavorative hanno continuato a coltivare la loro vena artistica sulla tela, all’apparenza più docile e maneggevole. Le opere pittoriche di Bruno, testimoni di questa formazione, si presentano come un fitto addensarsi di segni, di pennellate dalla caratteristica linea incurvata, come delle leggere onde che creano una vibrazione di colore sulla tela.
I colori trapassano uno nell’altro mantenendo il gioco delle miscele appreso accostando tessera a tessera, e le fasce si succedono per combinazioni calde con accostamenti di bianchi, neri, grigi, marroni, qualche raro inserto di rosso. Di solito sono paesaggi, cenni di piani sfalsati in cui orizzonti lontani sono evocati soltanto da pochi tratti mentre cieli, sfondi e terreni vicini sono risolti in grumose superfici materiche, con l’effetto di quella malta che a volte i mosaicisti lasciano ai margini dei loro lavori più raffinati. In qualche tela il colore irrompe più prepotente e ne nascono composizioni che potrebbero essere mazzi di fiori, sfolgorio di cieli, ma sempre con la costante di questo aggregarsi di segni, di virgole, quasi la realtà fosse lì per esplodere, o già esplosa, e di essa si potessero al massimo raggrumare tracce minute, frammenti da riassemblare. Tessere, insomma.
A seguire con attenzione l’ultima produzione di Bruno Vallan stupisce una cosa: in questa esplosione, che si traduce in una serie di pennellate fitte fitte, sempre più si vanno inglobando elementi estranei, contaminazioni del mondo reale che rompono l’orizzontalità della tela. Questa sempre più è tagliata a metà da inserti che la inarcano, interferiscono con la composizione o sono essi stessi composizione: rametti, brandelli di rete, steli che deformano sottotraccia un discorso che sembrava distendersi. La ricomposizione non si conclude più, la pennellata si rivela insufficiente e la realtà sembra premere più forte, invadere come un’estranea la superficie pittorica, rivendicare il diritto a un primo piano. La realtà che preme alle porte, che rompe la virtualità del fare pittura, interferisce in modo provocatorio per rivelare e portare a galla con prepotenza nodi e drammi che il tratteggio, a volte consolatorio, finiva per tacitare. Tento una conferma, torno ai mosaici, anche ai più recenti e trovo una dissoluzione diversa delle tensioni: le tessere, più democraticamente, accolgono gli intrusi, la pietra fa spazio allo smalto e le superfici, anche se potrebbero spezzare l’uniformità, al contrario stemperano gli spigoli, digeriscono l’intrusione. Trovo che nella pietra e negli smalti il dramma si è risolto prima, forse nel piccolo dramma del taglio dei materiali, in quel colpo fatale della martellina che ha in sé una carica di definitezza davanti a cui ogni altro dramma e ogni altra tensione passa in secondo piano. Dopo il taglio la pietra e lo smalto riacquistano la loro potenza materica, il loro contatto primigenio con la realtà, e non pare esservi conflitto. Mi si risolve, ragionando attorno ai lavori di Bruno, il vecchio problema del mosaico: arte o ancilla artis? tecnica originale, potente, o artigianato destinato a una funzione secondaria di copia? In realtà i linguaggi sono diversi, ciascuno ha la dignità del proprio status, ciascuno esplicita o risolve le domande in fasi diverse della lavorazione e a chi guarda resta il compito di cogliere questo sublime momento in cui si pone la domanda e si propone in forma intuitiva la soluzione. Che è in definitiva lo scopo di ogni arte, ciascuna con i suoi modi, i suoi processi, i suoi tempi. [da mosaici e dipinti di Bruno Vallan] Paolo Venti
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Paolo Venti anno 2018
Noi siamo quello che ricordiamo, e quello che ricordiamo non è mai esattamente quello che è stato. Ma dunque cos’è più reale, quando le cose sono trascorse? ciò che è stato o il ricordo di ciò che è stato, visto che questo in effetti ci definisce? Un discorso sul ricordo, questo per tanti versi è la mostra di Bruno Vallan, questo è la sua produzione in generale, questo forse la sua vita. Prescindendo per un attimo dalle tecniche diverse è possibile nei suoi lavori riconoscere un percorso e, alla fine, un segno che sembra la maturazione di un lungo esercizio. Un percorso di scavo che, seguendo anche un itinerario biografico iniziato dalla Scuola di mosaico, possiamo far partire forse da certi pannelli musivi di notevole impatto: una tessitura fitta di pietre grezze, non lavorate, incassate quasi senza fuga alcuna, sembra chiudere ogni possibilità di penetrazione, non fosse per quelle meravigliose “crepe” di smalto lucente che aprono sprazzi di altro, di un oltre, di qualcosa di visto, intravisto, perso. Perso biograficamente, perché il tempo con ciascuno di noi è vorace, ma forse nello specifico di Bruno Vallan accanto ad una perdita consueta se ne è consumata anche un’altra: il lavoro lo ha portato ad altro, a routine meno poetiche, forse, e le immagini care di linee e colori sono state vissute esse stesse come perdita, compensata con fatica e gioia nei musei parigini o nell’amicizia con altri artisti (la Cantarutti, per dirne una). La perdita dunque, come destino che accomuna noi uomini, matrice del ricordo, ma credo in definitiva di ogni forma d’arte.
Anche nelle tele mi pare si possa tracciare un’evoluzione che prende avvio da questo presupposto: partendo dai primi quadri, di grandi dimensioni, in cui linee precise, secche, segnavano sulla tela delle esplosioni di colore. Vi era in quei lavori come un’azione disperata, un’ansia di salvare le tracce dell’emozione prima che svaniscano. Linee decise, gridate, some se salvare le cose dal dissolvimento richiedesse uno sforzo, un gesto deciso. Nel frattempo altri quadri altre sperimentazioni astratte preparavano l’ultima fase che qui documentiamo: delle visioni più ampie, come improvvisi e rari ritorni di un fotogramma, cenni di paesaggio con grandi masse in equilibrio perfetto, cieli e terre in miracoloso dialogo, oppure l’epifania di sagome sfumate, nuvole disgregate di colore che sono quanto rimane di una situazione, di un’emozione. E’ un lungo e paziente esercizio sui colori, sugli accostamenti, perché i ricordi emergono per queste vie, senza definitezza, a volte un suono, o un profumo, o una sfumatura, in un’avarizia disperante con cui l’artista lotta senza posa.
Tutto questo lavoro torna utile nella serie dei nuovi dipinti, quelli in cui forse Vallan trova la propria cifra stilistica e in cui sarà facile riconoscere alcune precise costanti. Innanzitutto un segno, una strana evoluzione delle prime pennellate, una sorta di falce, una mezzaluna, un apostrofo che diventa via via alga, foglia, pagina, addensandosi in sciami sospesi. Un perfetto segno di riconoscimento (viene in mente, ma su tutt’altro versante, la epsilon di Capogrossi) che però marca un punto di arrivo interessante. Il ricordo non va ricercato, non si definisce e non si addensa più, e non si spera più in alcuna magica epifania, ma semmai in un fluttuare di microemozioni, in uno sfarfallio appena percepibile di guizzi (uno “sciame di pensieri”, direbbe Montale, proprio in una poesia su ricordo). E’ un segno che ha una leggerezza nuova, come una piuma, sospeso fra una precisa intenzionalità dell’artista e un arrendersi alla casualità del ricordo. A volte sono come avannotti che risalgono la corrente, queste piccole falci, altre volte lo frangiarsi del paesaggio, o tracce sulla neve: un codice senza distinzione di segni, un codice prealfabetico, un’unica nota variata all’infinito. Queste nuvole di segni si dispongono nel quadro cercando un centro, o una direzione, o una orizzontalità: è l’altra costante, che non esclude delle immersioni a “zoom” nel mare dei segni. Intorno al fluttuare degli apostrofi pittorici si coglie nei quadri più riusciti come una ricerca sottotraccia, tutta pittorica, fatta di campiture incredibili di colori tenui, con sfumature indefinibili di colore. Ocra, grigi, beige, bianchi si compongono come ad accompagnare l’apparire di qualcosa, come le pietre dei mosaici cui accennavo all’inizio. Ma la terza costante di questi lavori ultimi è la riconoscibilità di un paesaggio. Fondi marini, paesaggi innevati, cieli invernali: il groviglio delle falci dialoga con gli sfondi e nasce una cosa nuova, chi guarda trova qualcosa che forse è del tutto diverso dal ricordo perduto ma è qualcosa di emozionante, di rivelatore. Ecco, questo forse è un approdo dell’arte; nell’impossibilità di salvare il naufragio dei ricordi resta una scia di emozioni, un groviglio di energia che alla fine si compone in qualcosa d’altro, diverso ma denso e pregnante di realtà. Non è un caso che un’altra costante che mi pare di cogliere sia la componente materica di questa nuova stagione: al colore sono aggregati filamenti, sabbia, quasi a conferire una nuova esistenza reale a questo addensarsi impalpabile di brandelli di ricordo. Sì, siamo la somma dei ricordi, ma il risultato è tutt’altro dalla semplice somma, perché è nella ricombinazione che si genera un mondo nuovo, quel presente che viviamo adesso. Viviamo della linfa dei ricordi, di quelle leggere carezze che rimangono quando tutto è scomparso (cos’altro sono quelle virgole, quelle piume?). Da questo pulviscolo indistinto prendiamo forza e ricreiamo il mondo per andare avanti. Paolo Venti
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Francesca Foglia anno 2019
‘All’uomo sensibile ed immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in un certo modo doppi. Egli vedrà con gli occhi una torre, una campagna, udrà con gli orecchi un suono d’una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna, udrà un altro suono. In questo secondo genere di obbiettivi sta tutto il bello e il piacevole delle cose” (Giacomo Leopardi , Zibaldone).
Racconta uno tra i più suggestivi miti greci che Deucalione e Pirra, dopo il diluvio universale mandato da Zeus per punire l’empietà degli uomini, si ritrovarono ad essere gli unici superstiti sulla terra. L’oracolo consultato dalla coppia di sposi diede una sibillina risposta: dovevano gettarsi dietro le spalle ” le ossa della grande madre” e dovevano farlo con il capo coperto.
Fu Deucalione ad intuire che dovevano lanciare alle loro spalle le pietre che trovavano sul terreno: dalle pietre lanciate da Pirra nacque una nuova generazione di donne, mentre dalle pietre lanciate da Deucalione una nuova generazione di uomini e così la terra si ripopolò. Le opere di Bruno Vallan hanno fatto riaffiorare nella mia memoria questo mito per una serie di elementi. Il primo sono le pietre: la vicenda creativa di Vallan inizia proprio con le pietre, da trasformare in tessere, cercate nelle lavine delle sue montagne. Il gesto di gettare i sassi dietro le spalle con il capo velato esprime due concetti sempre presenti nelle opere dell’artista: il ricordo, ciò che abbiamo lasciato alle nostre spalle, come matrice creativa e il “capo velato” come accettazione del mistero che avvolge l’atto artistico in un’aurea quasi mistica. Nonostante l’assenza di elementi figurativi, le opere di Vallan sono dense di aspetti che fanno parte dell’ “epica” del quotidiano: la scelta di esprimersi con tecniche e materiali diversi, che tracciano sulla tela percorsi imprevedibili e sempre nuovi, rappresenta in maniera efficace la presenza degli ostacoli inattesi e degli equilibri sottili e fragili che caratterizzano ogni esistenza. Gli elementi che compongono il linguaggio artistico di Vallan richiedono all’osservatore uno sguardo attento e paziente per essere apprezzati, si rivelano in tutte le loro sfumature a chi sa concedersi il tempo di entrare in relazione con essi come si entrerebbe in relazione con una persona appena conosciuta. Le pennellate che si sovrappongono, le tessere che si sommano e il colore che si fa materia viva e si integra, o si frappone, con altri elementi, diventano il ” lessico familiare” dell’artista che ci invita a non cercare una chiave di interpretazione delle sue opere, ma piuttosto a lasciarci suggestionare da esse. Le pennellate a volte creano curve morbide e brevi, a tratti si spezzano per creare intrecci complessi oppure continuano, quasi a costruire una linea che simula l’orizzonte.
Di fronte alla produzione artistica di Bruno Vallan possiamo immergerci come in un fiume e lasciare che, nel fluire continuo dell’acqua, emerga nella nostra mente l’immagine di un ricordo già vissuto o di una memoria che sarà futura.
La definizione “Idilli”, termine che deriva dal greco “eidillion”, immagine, bozzetto, coglie il carattere riflessivo ed intimistico delle opere dell’artista friulano, attraverso le quali Vallan, “uomo sensibile ed immaginoso”, rende possibile a chi le contempla l’esperienza della “doppia visione” leopardiana. Ogni racconto narrato attraverso la materia, le linee ed il colore, si moltiplica all’infinito negli sguardi di ogni osservatore e regala la più preziosa delle possibilità: dilatare il tempo della vita attraverso il contatto con l’arte.Francesca Foglia
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Paolo Venti anno 2020
È affascinante seguire di un artista l’evoluzione lenta e costante, ritrovare anno dopo anno i segni chiari di una ricerca, di una sperimentazione: la mente e l’occhio che rilevano e bilanciano gli elementi caratteristici e quelli nuovi fanno al tempo stesso una verifica etica, di onestà. Nel senso che la fedeltà nel tempo a un proprio modo di vedere, di dipingere, in cui la ricerca e l’evoluzione lenta e meditata raccontino una fatica, un impegno lungo e lontano da facili sperimentalismi, sono di per sé una garanzia. E in ambito artistico questo paga, perché diventa cifra riconoscibile, connotazione precisa ed esclusiva. L’onestà a se stesso è la prima cosa che lego a Bruno Vallan, un artista di Maniago ormai ben conosciuto, con alle spalle una lunga serie di mostre e di riconoscimenti, persona dai modi così gentili da parere di altri tempi, di tempi migliori. La sua produzione – è importante dirlo fin da subito – si muove su due versanti, diversi quanto a tecnica ma in una profonda simbiosi di intenti. Da un lato come artista si forma molti e molti anni fa alla Scuola Mosaicisti di Spilimbergo e proprio il mosaico è rimasto la sua prima forma espressiva. La pittura su tela si è affiancata ben presto, in una sorta di continuità interessante che parla proprio di questa fedeltà alle origini di cui dicevo. Resta da segnalare un fatto importante, per definire in breve la biografia artistica di Bruno Vallan, ovvero il lungo iato che divide la formazione giovanile dal momento in cui, terminata l’attività lavorativa e la distanza da casa, ritorna il tempo dei colori, del pennello, delle tele.
I mosaici più recenti di Vallan si presentano come aggregati di roccia e colore, in una combinazione originale e perfino provocatoria. L’artista utilizza frammenti di roccia scabra, raccolta sui greti dei torrenti, non ancora levigata dalla corrente ma irta di spigoli. I frammenti sono inseriti così, senza intervenire con la martellina, accostati stretti gli uni agli altri quasi a saturare ogni fessura in una massa granulosa e scabra: all’interno, rare e squadrate, tessere di smalto che via via si addensano salendo verso l’alto, si infittiscono fra le rocce fino ad agglomerarsi in raffinati effetti di miscele colorate, o tagliano la massa compatta a evocare fratture, ferite. Il contrasto non può essere più evidente, fra il grigio quasi uniforme e sterile da un lato e la vitalità colorata, brillante dall’altro. È la vita, quello di cui ci sta parlando Bruno, non è altro che il suo modo di sentire la vita, è lui, e a conoscerlo si ha la conferma evidente. Il lavoro, l’abbandono delle cose e delle persone, la distanza, la malattia non lasciano spazio, sono la durezza del mondo, sempre uguale a sé ma necessaria. Sopportabile a patto che qua e là fiorisca un colore, una tessera rompa la prigione di pietra, e poi via via apra strade per lo sguardo, il respiro. Mi parla, Bruno, con gli occhi che si illuminano, di qualche mostra vista a Parigi, di questo suo amore per l’arte mai interrotto anche se il tempo mancava per metterci mano, ed è come se mi raccontasse i pannelli musivi che avevo davanti, come se ogni tessera diventasse un giorno, ogni pietra una fatica. Ma da questi pannelli impariamo anche un’altra cosa importante di questo artista, ovvero la capacità di accostare con dolcezza, senza inutili esasperazioni e senza alzare la voce mai, la realtà delle cose e la leggerezza dei colori. Si crea un dialogo costante che ritroveremo anche nei quadri, fra il reale, testimoniato qui da quello che di più reale esiste al mondo, la roccia, l’immaginato e il sognato, capace di farci lievitare sul mondo stesso consegnandoci a spazi di bellezza. È importante ricordarcene, perché uno degli aspetti peculiari di Bruno Vallan sta proprio qui, nel rifuggire da facili idealizzazioni e nel testimoniare di continuo una aderenza alle cose, nella consapevolezza chiara che realtà, dolore, fatica sono imprescindibili, necessarie, sono quasi il prezzo da pagare per sfiorare la bellezza. Che la bellezza non si dà se non nella fatica, che non ci sono spazi platonici di perfezione ma solo frammenti minuscoli da cercare fra le pietre, splendidi proprio perché ritagliati nel mondo, smarriti fra le cose banali.
Mi piace ricordare qui l’amicizia, di Vallan con la compianta Novella Cantarutti, comprensibile da quanto sto dicendo: si coglie a tratti la stessa consonanza, quello stupore incantato di ritrovare un fiore fra i sassi, quella adesione ostinata alla durezza della montagna, alla fatica, e la consapevolezza che solo da lì può venire il miracolo, raro e prezioso, della bellezza.
La pittura, come dicevo, seppure con soluzioni tecniche ovviamente diverse, è in stretta continuità e coerenza con l’opera musiva. Le tele si presentano come contenitori di tracce, solcate da un reticolo di pennellate fitte, ora più decise, lunghe e forti, ora sottili, minuscole. Colpisce innanzitutto la coerenza cromatica, la grande capacità dell’artista di mantenere un bilanciamento preciso fra tonalità diverse, di creare un’armonia di colori che funziona tanto nei dettagli quanto nella visione complessiva dell’opera che può essere letta pennellata dopo pennellata, come fosse un libro, o in una visione d’insieme, lasciandosi avvolgere da un senso globale, o magari percorsa e ripercorsa nelle due direzioni percettive. La gamma cromatica predilige alcuni colori, i neri, i bianchi, tutti i colori della terra, ma anche qualche inserto vivo, di rosso o blu. L’intreccio fitto delle pennellate crea uno sfondo della tela che è vibrazione, quasi un fluttuare di onde sulla superficie del mare, quasi il vibrare della vita nel suo continuo rinnovamento. Fin dal primo sguardo si coglie il tema dominante di questo lavoro, il tempo. Che significa tempo dei ricordi, delle nostalgie, come se il pennello potesse evocare, riportare in vita emozioni, eventi, persone. È come uno sfogliare gli anni, prima febbrile, quasi rabbioso, poi via via, man mano che le distanze si accorciano, più sereno, quasi rappacificato. Le prime tele presentavano separazioni di campo più nette, spazi in cui accadevano delle cose, altri in cui dominava la quiete, contrasti di tonalità che dividevano il quadro in partizioni riconoscibili. Via via si ha l’impressione che i contrasti si attenuino, che ormai l’intera superficie sia spazio di un dialogo più pacato e composto: i contrasti restano, il dialogo fra i colori e le linee rimane, ma si è come diffuso, placato, ammorbidito. Le pennellate, dalla caratteristica forma a virgola (quasi una carezza lieve alle cose, come avevo immaginato in un testo di qualche anno fa) diventano più minute, ravvicinate. La differenza fra lo sfondo, fatto di un vibrare indistinto, e gli eventi marcati della superficie, che caratterizzava i primi quadri, sembra venire meno, quasi i nostri gesti umani, le nostre passioni, finissero con la saggezza del tempo per confondersi con il vibrare del tutto. Anche il tratto si modifica: le pennellate più lunghe, decise, rettilinee, che parlavano di un contrasto più diretto, perfino a volte di una rabbia tenuta a freno, si ammorbidiscono tutte nelle virgole più morbide, un dettaglio minimo, una dialettica geometrica elementare ma illuminante che ci racconta un lento cambio di prospettiva, il guadagno di una visione rasserenata sulle cose e sul mondo. Le lacerazioni vengono meno, si stemperano, guariscono, gli strazi del ricordo si allontanano e il presente, con le sue oscillazioni lievi e vicine, ritorna protagonista.
Le ultime opere ci presentano quasi una riconciliazione con il mondo stesso, attraverso l’utilizzo di inserti materici. Se nel mosaico, per suo statuto intrinseco, domina un paradosso di fondo, ovvero il fatto che il mondo si ritrae con le cose del mondo, che la materia del fare (pietra, smalto) è più concreta a volte del soggetto (emozione, paesaggio), gli inserti che utilizza Vallan nelle opere più recenti parlano di un mondo riaccolto, ammesso nella sua fisicità dentro l’opera d’arte. Una nuova simbiosi fra il mezzo e il soggetto rappresentato, una saldatura fra reale e percezione. Rametti, reti, fili d’erba sono inglobati nel reticolo delle virgole, come se il mondo ritornasse a vivere nei pensieri e la scia del ricordo si incollasse di nuovo con la realtà del presente. Segno di un’arte che si innerva e si innesta nella vita, che si sviluppa in una simbiosi profonda con l’artista e con l’uomo, respira il suo ritmo e ci parla delle sue relazioni, a volte difficili a volte esaltanti, con il mondo e con il tempo. Insomma, come sempre per l’arte, ci parla di noi. Paolo Venti in: La Panarie (rivista friulana d’arte e di cultura) a. 53, n. 205 (giugno 2020), p. 228-233. – In testa a p. 228: Rubrica a cura di AURA Associazione artistico culturale del Friuli Venezia Giulia
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Poesia di Titti Burigana dedicata a Bruno Vallan il 4 dicembre 2017 in occasione della personale organizzata nel Palazzo Ragazzoni Biglia (Sacile – PN) – Pubblicata a pagina 19 del libro “PROFONDO E’ IL CIELO” edito da Publimedia Editore – maggio 2018
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Le tue maniAgili, abili, laboriose,
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Non vi sono commenti da aggiungere tuttavia vorrei esprimere qui, senza falsa modestia, il sentimento di orgoglio generato nel mio cuore dai “versi” che l’amica Titti ha voluto dedicarmi.Sai le pietre…Tecnica : Mosaico: Roccia e vetro
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